Si tratta del lungamente atteso provvedimento che servirà alla piena realizzazione della legge 24/2017, più nota come “Legge Gelli”, necessario alla regolazione dei meccanismi di garanzia obbligatori, predisposti agli articoli 10, 11 e 12 della norma e specificatamente dedicati alla disciplina assicurativa.
Il decreto entra in vigore con effetto dal 16 marzo 2024: entro 24 mesi da tale data, le compagnie dovranno adeguare i contratti di assicurazione in conformità alle regole ivi previste. Le polizze pluriennali aggiudicate nell'ambito di bandi pubblici, se non rinegoziabili tra le parti, resteranno in vigore fino alla loro scadenza naturale, ma non oltre 24 mesi dall'entrata in vigore del decreto.
E dunque finalmente ci siamo: società di assicurazione, medici e strutture non potranno più reclamare per l’incompletezza delle disposizioni predisposte dalla legge Gelli sulle condizioni minime che i contratti assicurativi dovranno riportare, ma vediamo nel dettaglio in cosa consistono queste tanto attese regole d’ingaggio.
Il regolamento si compone di 19 articoli, suddivisi in quattro titoli: Disposizioni generali, Requisiti minimi ed uniformi per l’idoneità dei contratti di assicurazione, Requisiti minimi di garanzia e condizioni di operatività delle misure analoghe e Disposizioni finali.
Il primo articolo è dedicato alle definizioni. Viene dunque formulato il glossario di riferimento, il che non è ridondante come potrebbe sembrare: la legge 24/2017 risultava infatti poco chiara in molti punti e qualche precisazione non guasta di certo.
La materia, inoltre, è assai vasta ed intricata ed è probabile che ci siano ancora da chiarire molte questioni: in ogni caso, il testo del decreto va sempre rapportato a quello della “legge madre”.
Risulta assai utile – ad esempio - il chiarimento fornito sulla definizione di “esercente attività libero professionale”: attività svolta dall'esercente la professione sanitaria, anche in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, al di fuori della struttura o all'interno della stessa o di cui si avvale in adempimento della propria obbligazione contrattualmente assunta con il paziente, indipendentemente dalla tipologia di rapporto intercorrente con la struttura o dal ruolo ricoperto.
Non è una questione di lana caprina: come sappiamo, la legge Gelli ha assimilato le strutture pubbliche alle private. A questo punto, però, si è reso necessario creare una sorta di parallelismo di questo concetto anche sul piano dei professionisti sanitari.
A partire dalla sua promulgazione, molte sono state le decisioni prese dalle Corti di ogni ordine e grado, in merito alla differenza esistente tra i professionisti dipendenti dalle strutture e coloro che invece esercitano la professione privata, perché diverso è l’atteggiamento della legge nei confronti degli uni e degli altri.
La responsabilità che ricade sui dipendenti di struttura, infatti, resta all’ombra di quella prestata dall’ente per il quale lavorano, che risponde sempre in prima battuta, salvo avere poi il diritto di rivalersi verso il dipendente, ma limitatamente ai casi di colpa grave.
La posizione del medico dipendente, quindi, risulta alleviata dallo scudo rappresentato dalla struttura stessa e difatti l’obbligo che ricade sullo stesso, ai sensi del disposto dell’articolo 10 della legge, è limitato a contrarre una polizza che assicuri – appunto - solo il caso di colpa grave, un contratto, cioè, che costa assai meno di quelli relativi ai professionisti privati, perché beneficia di due limiti ben precisi: il primo, consiste nell’essere limitato alla rivalsa dell’ente o del suo assicuratore (ed esclusivamente per colpa grave accertata), il secondo dal fatto di rispondere entro una soglia pari a 3 volte lo stipendio medio annuo del professionista sanitario assicurato.
In soldoni, ciò vuol dire che il massimo che una struttura potrà recuperare dal proprio dipendente, sempre che sia in grado di provare la colpa grave di quest’ultimo (il che non è semplice e nemmeno questione di poco tempo), saranno poche centinaia di migliaia di euro, a fronte di un possibile esborso di svariate centinaia di migliaia di euro, se non di milioni, in prima battuta.
Il professionista privato, invece, non ha alcun paracadute che lo protegga e risponderà direttamente, come se fosse un’azienda egli stesso.
Detto così, può sembrare facile capire dove si muova il confine tra responsabilità dell’azienda sanitaria e responsabilità del medico, ma la realtà è assai più complessa, perché non sono poi tanti i professionisti che operano quali autentici imprenditori privati e perché, per sua natura, l’attività medica necessita di essere svolta presso una struttura, almeno in buona parte dei casi.
E non parliamo semplicemente della differenza tra attività intra o extra moenia. Un chirurgo – per quanto sia un free-lance - non può certo operare sul tavolo della sua cucina ed avrà sempre bisogno del supporto di un’azienda sanitaria, sia in termini logistici (la sala operatoria e le relative apparecchiature), che per la necessità di doversi avvalere di un’équipe.
E dunque come lo trattiamo questo chirurgo free-lance? La responsabilità che incombe su di lui non sarà certo equiparabile a quella di uno specialista che lavori esclusivamente nel proprio studio privato.
L’articolo 10 della legge 24/2017 si limitava a definire il medico libero professionista come “l'esercente la professione sanitaria che svolga la propria attività al di fuori di una delle strutture (omissis), o che presti la sua opera all'interno della stessa in regime libero-professionale, ovvero che si avvalga della stessa nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente...”, ma la Suprema Corte si è espressa a più riprese di fronte al tentativo di molte strutture di liberarsi dal peso dei propri obblighi nei confronti dei pazienti, utilizzando la polizza dei professionisti che collaborino con loro come “schermo”.
La posizione prevalente della magistratura ha determinato come fosse necessario definire una suddivisione delle responsabilità dei soggetti coinvolti, in base alla situazione realmente riscontrata: avrebbe dovuto essere il giudice, quindi, a decidere la misura del coinvolgimento dell’azienda sanitaria e del professionista, sulla base dei fatti.
Se è vero che il libero professionista è legato al paziente da un rapporto contrattuale e che lo stesso ha bisogno di ricorrere alla struttura per operare, dall’altra parte avremo un’azienda che necessita del professionista per condurre la propria attività e la stessa sarà comunque legata al paziente da un contratto per la fornitura dei suoi servizi.
L’errore può qui ricadere in tutto o in parte su ciascun soggetto: un’infezione nosocomiale dipenderà quasi esclusivamente dalla struttura, un errore manuale o una decisione errata, presa dal chirurgo durante l’operazione, ricadrà anche totalmente su quest’ultimo.
Per come è formulata ora la definizione, indipendentemente dal tipo di rapporto che lega il professionista alla struttura, sembra che debba valere esclusivamente il suo rapporto col paziente e il giudice stabilirà di conseguenza la suddivisione del titolo di responsabilità, e dunque il grado di coassicurazione tra polizza della struttura e polizza del professionista medico, in base ai fatti riscontrati. La nuova definizione sembra quindi accogliere quanto si è concretizzato nelle decisioni dei magistrati, a partire dalla promulgazione della legge, nell’ormai lontano 2017.
Un altro aspetto che salta agli occhi (ve ne saranno sicuramente altri che si paleseranno nelle settimane e nei mesi a venire), riguarda la definizione di sinistro.
Il decreto lo definisce come “la richiesta di risarcimento danni per i quali è prestata l'assicurazione (criterio c.d. «claims made», ossia qualsiasi formale richiesta scritta avanzata per la prima volta da terzi in vigenza di polizza o durante il periodo di ultrattività di cui all'articolo 5, comma 2, nei confronti dell'assicurato (o, nel caso di azione diretta, nei confronti dell'assicuratore), per il risarcimento dei danni subiti come conseguenza della sua attività; costituisce sinistro anche la citazione dell'assicurato in veste di responsabile civile in un procedimento penale a fronte della costituzione di parte civile da parte del danneggiato. In caso di polizza di cui all'articolo 10, comma 3, della Legge (la rivalsa dell’ente per colpa grave – ndr), il sinistro è costituito dall'esercizio dell'azione di responsabilità amministrativa, di rivalsa o surroga previste dagli articoli 9, commi 5 e 6, e 12, comma 3, della Legge. In questi casi, costituisce sinistro anche il ricevimento dell'invito a dedurre da parte del pubblico ministero presso la Corte dei Conti, nonché, per la rivalsa civilistica delle strutture sanitarie, la richiesta scritta avanzata per la prima volta dalla struttura in vigenza di polizza nei confronti dell'assicurato, con la quale è ritenuto responsabile per colpa grave a seguito di sentenza passata in giudicato. Fatti diversi da quelli elencati non costituiscono sinistro, ivi inclusa la richiesta della cartella clinica, l'esecuzione del riscontro autoptico/autopsia giudiziaria/autopsia di cui al D.P.R.10 settembre 1990, n. 285, la querela e l'avviso di garanzia. Più richieste di risarcimento presentate all'assicurato o all'assicuratore o alla struttura in conseguenza di una pluralità di eventi riconducibili allo stesso atto, errore od omissione, oppure a più atti, errori od omissioni riconducibili ad una stessa causa, rappresentano nella formula claims made altrettanti sinistri quanti sono gli eventi (nel primo caso) o gli atti, errori od omissioni(nel secondo caso)”.
Su questo punto ci sarebbe parecchio da dire, ma mi limiterò alle questioni più immediatamente palpabili.
Innanzi tutto, viene ribadita la validità temporale della polizza su base “claims made”, con un periodo di retroattività di 10 anni ed uno di ultrattività (la cosiddetta postuma, o sunset, in gergo assicurativo) di altri 10 anni.
Si tratta di un punto estremamente importante per definire il funzionamento di queste polizze e l’obbligo da parte degli assicuratori di coprire per intero un arco temporale di almeno 20 anni: dal fatto generatore alla denuncia di sinistro, che nell’ambito della responsabilità contrattuale concede fino a 10 anni di tempo alla vittima dell’illecito, fino agli ulteriori 10 anni che – per la stessa ragione – potrebbero frapporsi dall’ultimo possibile illecito compiuto dal professionista che dovesse abbandonare l’attività e la data in cui la relativa denuncia di sinistro potrebbe comunque raggiungerlo.
Senza la sunset, una volta abbandonata l’attività e cessato l’obbligo di contrarre polizza assicurativa, infatti, eventuali richieste di risarcimento che dovessero presentarsi non sarebbero più coperte e il professionista sanitario si troverebbe scoperto da qualunque tipo di protezione assicurativa.
La questione della validità temporale della garanzia in regime di claims made è di grande importanza.
Come sappiamo, la magistratura italiana ha a lungo avversato l’utilizzo di questa clausola, che non è ancora del tutto sdoganato (prova ne sia la decisione n.3123 della Cassazione, del 2 febbraio 2024…).
La clausola, infatti, non obbedisce al disposto dell’articolo 1917 del Codice civile, che stabilisce il funzionamento delle polizze di assicurazione sulla responsabilità civile, sulla base della data di accadimento del fatto dannoso (in gergo, si dice loss occurring).
La claims made cambia di fatto la definizione di sinistro, spostandola dalla data dell’evento dannoso a quella della denuncia dell’evento stesso (claims made, per l’appunto). Non rispondendo alle indicazioni previste dal Codice, la magistratura italiana ha sempre trovato ostico accettare un meccanismo di assicurazione siffatto ed è spesso intervenuta modificando la portata della clausola stessa, perché risultasse in linea con le disposizioni di legge.
Tuttavia, almeno per quanto attiene la responsabilità medica (così com’è avvenuto anche per la responsabilità professionale degli avvocati), sembra ormai pacifico che la si possa adottare, perché le leggi che si sono specificamente occupate della responsabilità professionale di queste due categorie di professionisti hanno di fatto aggirato le relative problematiche, imponendo il funzionamento delle polizze proprio su base claims made.
Ma la questione tecnico-assicurativa che sta alla base dell’utilizzo di questa norma rappresenta comunque un bel macigno sull’economia di queste polizze. Più ampia è la finestra temporale coperta, infatti, maggiore sarà il premio che l’assicuratore pretenderà dall’assicurato.
Per certe specialità di non facile piazzamento, come quelle più esposte alle lunghe e talvolta lunghissime code che caratterizzano molti sinistri da RC Medica, ciò vuol dire doversi sobbarcare di premi assicurativi alquanto cospicui: un ostetrico, ad esempio, può trovarsi di fronte ad un premio che può sfiorare e perfino superare abbondantemente i 20.000 euro.
Alcune compagnie hanno così approfittato del vuoto legislativo causato dalla mancata promulgazione di questo decreto, per offrire polizze con premi fortemente scontati, a fronte dell’accettazione – da parte del professionista – di una retroattività o di una postuma inesistenti o estremamente limitate.
Per quanto l’indicazione dell’articolo 11 della legge Gelli fosse abbastanza chiara, si lamentava l’assenza di una regola precisa circa le condizioni minime applicabili e dunque si offriva una polizza a condizioni limitate, per poter richiedere un premio anch’esso ridotto, rispetto al dovuto.
Il decreto dovrebbe risolvere ora la questione, giacché alla definizione di sinistro e successivamente all’articolo 5 esso prevede chiaramente una validità temporale minima che copre 10 anni di retroattività e altri 10 di postuma/sunset.
Resta tuttavia un problema di fondo che nemmeno la legge Gelli ha potuto o voluto affrontare: per poter lavorare, il professionista deve necessariamente contrarre polizza di assicurazione, mentre la compagnia assicuratrice può sempre rifiutare di coprire il suo rischio.
Di fronte ad un allargamento così netto dell’orizzonte temporale coperto, ormai non più aggirabile da parte delle compagnie di assicurazione, è lecito aspettarsi un incremento dei premi medi che potrebbe risultare assai difficile da sostenere per alcune categorie di professionisti sanitari.
Vedremo quindi come il mercato affronterà questa sfida, anche perché vi sono altre disposizioni del decreto che potrebbero essere foriere di ulteriori irrigidimenti da parte degli assicuratori.
Mi riferisco, ad esempio, al divieto di invocare disdetta per sinistro per gli assicuratori ed alla possibilità di ricorrere al cosiddetto indennizzo diretto, ovvero alla chiamata in causa diretta della compagnia di assicurazione, così come avviene per la responsabilità civile per la circolazione dei veicoli, da parte del danneggiato.
Ma rischiamo di risultare prolissi e dunque chiedo scusa al lettore, ma di questo parleremo in un’altra occasione…
Il decreto entra in vigore con effetto dal 16 marzo 2024: entro 24 mesi da tale data, le compagnie dovranno adeguare i contratti di assicurazione in conformità alle regole ivi previste. Le polizze pluriennali aggiudicate nell'ambito di bandi pubblici, se non rinegoziabili tra le parti, resteranno in vigore fino alla loro scadenza naturale, ma non oltre 24 mesi dall'entrata in vigore del decreto.
E dunque finalmente ci siamo: società di assicurazione, medici e strutture non potranno più reclamare per l’incompletezza delle disposizioni predisposte dalla legge Gelli sulle condizioni minime che i contratti assicurativi dovranno riportare, ma vediamo nel dettaglio in cosa consistono queste tanto attese regole d’ingaggio.
Una questione di definizioni
Il regolamento si compone di 19 articoli, suddivisi in quattro titoli: Disposizioni generali, Requisiti minimi ed uniformi per l’idoneità dei contratti di assicurazione, Requisiti minimi di garanzia e condizioni di operatività delle misure analoghe e Disposizioni finali.
Il primo articolo è dedicato alle definizioni. Viene dunque formulato il glossario di riferimento, il che non è ridondante come potrebbe sembrare: la legge 24/2017 risultava infatti poco chiara in molti punti e qualche precisazione non guasta di certo.
La materia, inoltre, è assai vasta ed intricata ed è probabile che ci siano ancora da chiarire molte questioni: in ogni caso, il testo del decreto va sempre rapportato a quello della “legge madre”.
Risulta assai utile – ad esempio - il chiarimento fornito sulla definizione di “esercente attività libero professionale”: attività svolta dall'esercente la professione sanitaria, anche in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, al di fuori della struttura o all'interno della stessa o di cui si avvale in adempimento della propria obbligazione contrattualmente assunta con il paziente, indipendentemente dalla tipologia di rapporto intercorrente con la struttura o dal ruolo ricoperto.
Non è una questione di lana caprina: come sappiamo, la legge Gelli ha assimilato le strutture pubbliche alle private. A questo punto, però, si è reso necessario creare una sorta di parallelismo di questo concetto anche sul piano dei professionisti sanitari.
A partire dalla sua promulgazione, molte sono state le decisioni prese dalle Corti di ogni ordine e grado, in merito alla differenza esistente tra i professionisti dipendenti dalle strutture e coloro che invece esercitano la professione privata, perché diverso è l’atteggiamento della legge nei confronti degli uni e degli altri.
La responsabilità dei professionisti dipendenti
La responsabilità che ricade sui dipendenti di struttura, infatti, resta all’ombra di quella prestata dall’ente per il quale lavorano, che risponde sempre in prima battuta, salvo avere poi il diritto di rivalersi verso il dipendente, ma limitatamente ai casi di colpa grave.
La posizione del medico dipendente, quindi, risulta alleviata dallo scudo rappresentato dalla struttura stessa e difatti l’obbligo che ricade sullo stesso, ai sensi del disposto dell’articolo 10 della legge, è limitato a contrarre una polizza che assicuri – appunto - solo il caso di colpa grave, un contratto, cioè, che costa assai meno di quelli relativi ai professionisti privati, perché beneficia di due limiti ben precisi: il primo, consiste nell’essere limitato alla rivalsa dell’ente o del suo assicuratore (ed esclusivamente per colpa grave accertata), il secondo dal fatto di rispondere entro una soglia pari a 3 volte lo stipendio medio annuo del professionista sanitario assicurato.
In soldoni, ciò vuol dire che il massimo che una struttura potrà recuperare dal proprio dipendente, sempre che sia in grado di provare la colpa grave di quest’ultimo (il che non è semplice e nemmeno questione di poco tempo), saranno poche centinaia di migliaia di euro, a fronte di un possibile esborso di svariate centinaia di migliaia di euro, se non di milioni, in prima battuta.
La responsabilità dei professionisti privati
Il professionista privato, invece, non ha alcun paracadute che lo protegga e risponderà direttamente, come se fosse un’azienda egli stesso.
Detto così, può sembrare facile capire dove si muova il confine tra responsabilità dell’azienda sanitaria e responsabilità del medico, ma la realtà è assai più complessa, perché non sono poi tanti i professionisti che operano quali autentici imprenditori privati e perché, per sua natura, l’attività medica necessita di essere svolta presso una struttura, almeno in buona parte dei casi.
E non parliamo semplicemente della differenza tra attività intra o extra moenia. Un chirurgo – per quanto sia un free-lance - non può certo operare sul tavolo della sua cucina ed avrà sempre bisogno del supporto di un’azienda sanitaria, sia in termini logistici (la sala operatoria e le relative apparecchiature), che per la necessità di doversi avvalere di un’équipe.
E dunque come lo trattiamo questo chirurgo free-lance? La responsabilità che incombe su di lui non sarà certo equiparabile a quella di uno specialista che lavori esclusivamente nel proprio studio privato.
L’articolo 10 della legge 24/2017 si limitava a definire il medico libero professionista come “l'esercente la professione sanitaria che svolga la propria attività al di fuori di una delle strutture (omissis), o che presti la sua opera all'interno della stessa in regime libero-professionale, ovvero che si avvalga della stessa nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente...”, ma la Suprema Corte si è espressa a più riprese di fronte al tentativo di molte strutture di liberarsi dal peso dei propri obblighi nei confronti dei pazienti, utilizzando la polizza dei professionisti che collaborino con loro come “schermo”.
La posizione prevalente della magistratura ha determinato come fosse necessario definire una suddivisione delle responsabilità dei soggetti coinvolti, in base alla situazione realmente riscontrata: avrebbe dovuto essere il giudice, quindi, a decidere la misura del coinvolgimento dell’azienda sanitaria e del professionista, sulla base dei fatti.
Se è vero che il libero professionista è legato al paziente da un rapporto contrattuale e che lo stesso ha bisogno di ricorrere alla struttura per operare, dall’altra parte avremo un’azienda che necessita del professionista per condurre la propria attività e la stessa sarà comunque legata al paziente da un contratto per la fornitura dei suoi servizi.
L’errore può qui ricadere in tutto o in parte su ciascun soggetto: un’infezione nosocomiale dipenderà quasi esclusivamente dalla struttura, un errore manuale o una decisione errata, presa dal chirurgo durante l’operazione, ricadrà anche totalmente su quest’ultimo.
Per come è formulata ora la definizione, indipendentemente dal tipo di rapporto che lega il professionista alla struttura, sembra che debba valere esclusivamente il suo rapporto col paziente e il giudice stabilirà di conseguenza la suddivisione del titolo di responsabilità, e dunque il grado di coassicurazione tra polizza della struttura e polizza del professionista medico, in base ai fatti riscontrati. La nuova definizione sembra quindi accogliere quanto si è concretizzato nelle decisioni dei magistrati, a partire dalla promulgazione della legge, nell’ormai lontano 2017.
Come si definisce il sinistro
Un altro aspetto che salta agli occhi (ve ne saranno sicuramente altri che si paleseranno nelle settimane e nei mesi a venire), riguarda la definizione di sinistro.
Il decreto lo definisce come “la richiesta di risarcimento danni per i quali è prestata l'assicurazione (criterio c.d. «claims made», ossia qualsiasi formale richiesta scritta avanzata per la prima volta da terzi in vigenza di polizza o durante il periodo di ultrattività di cui all'articolo 5, comma 2, nei confronti dell'assicurato (o, nel caso di azione diretta, nei confronti dell'assicuratore), per il risarcimento dei danni subiti come conseguenza della sua attività; costituisce sinistro anche la citazione dell'assicurato in veste di responsabile civile in un procedimento penale a fronte della costituzione di parte civile da parte del danneggiato. In caso di polizza di cui all'articolo 10, comma 3, della Legge (la rivalsa dell’ente per colpa grave – ndr), il sinistro è costituito dall'esercizio dell'azione di responsabilità amministrativa, di rivalsa o surroga previste dagli articoli 9, commi 5 e 6, e 12, comma 3, della Legge. In questi casi, costituisce sinistro anche il ricevimento dell'invito a dedurre da parte del pubblico ministero presso la Corte dei Conti, nonché, per la rivalsa civilistica delle strutture sanitarie, la richiesta scritta avanzata per la prima volta dalla struttura in vigenza di polizza nei confronti dell'assicurato, con la quale è ritenuto responsabile per colpa grave a seguito di sentenza passata in giudicato. Fatti diversi da quelli elencati non costituiscono sinistro, ivi inclusa la richiesta della cartella clinica, l'esecuzione del riscontro autoptico/autopsia giudiziaria/autopsia di cui al D.P.R.10 settembre 1990, n. 285, la querela e l'avviso di garanzia. Più richieste di risarcimento presentate all'assicurato o all'assicuratore o alla struttura in conseguenza di una pluralità di eventi riconducibili allo stesso atto, errore od omissione, oppure a più atti, errori od omissioni riconducibili ad una stessa causa, rappresentano nella formula claims made altrettanti sinistri quanti sono gli eventi (nel primo caso) o gli atti, errori od omissioni(nel secondo caso)”.
Su questo punto ci sarebbe parecchio da dire, ma mi limiterò alle questioni più immediatamente palpabili.
Validità temporale della garanzia
Innanzi tutto, viene ribadita la validità temporale della polizza su base “claims made”, con un periodo di retroattività di 10 anni ed uno di ultrattività (la cosiddetta postuma, o sunset, in gergo assicurativo) di altri 10 anni.
Si tratta di un punto estremamente importante per definire il funzionamento di queste polizze e l’obbligo da parte degli assicuratori di coprire per intero un arco temporale di almeno 20 anni: dal fatto generatore alla denuncia di sinistro, che nell’ambito della responsabilità contrattuale concede fino a 10 anni di tempo alla vittima dell’illecito, fino agli ulteriori 10 anni che – per la stessa ragione – potrebbero frapporsi dall’ultimo possibile illecito compiuto dal professionista che dovesse abbandonare l’attività e la data in cui la relativa denuncia di sinistro potrebbe comunque raggiungerlo.
Senza la sunset, una volta abbandonata l’attività e cessato l’obbligo di contrarre polizza assicurativa, infatti, eventuali richieste di risarcimento che dovessero presentarsi non sarebbero più coperte e il professionista sanitario si troverebbe scoperto da qualunque tipo di protezione assicurativa.
La questione della validità temporale della garanzia in regime di claims made è di grande importanza.
Come sappiamo, la magistratura italiana ha a lungo avversato l’utilizzo di questa clausola, che non è ancora del tutto sdoganato (prova ne sia la decisione n.3123 della Cassazione, del 2 febbraio 2024…).
La clausola, infatti, non obbedisce al disposto dell’articolo 1917 del Codice civile, che stabilisce il funzionamento delle polizze di assicurazione sulla responsabilità civile, sulla base della data di accadimento del fatto dannoso (in gergo, si dice loss occurring).
La claims made cambia di fatto la definizione di sinistro, spostandola dalla data dell’evento dannoso a quella della denuncia dell’evento stesso (claims made, per l’appunto). Non rispondendo alle indicazioni previste dal Codice, la magistratura italiana ha sempre trovato ostico accettare un meccanismo di assicurazione siffatto ed è spesso intervenuta modificando la portata della clausola stessa, perché risultasse in linea con le disposizioni di legge.
Tuttavia, almeno per quanto attiene la responsabilità medica (così com’è avvenuto anche per la responsabilità professionale degli avvocati), sembra ormai pacifico che la si possa adottare, perché le leggi che si sono specificamente occupate della responsabilità professionale di queste due categorie di professionisti hanno di fatto aggirato le relative problematiche, imponendo il funzionamento delle polizze proprio su base claims made.
Ma la questione tecnico-assicurativa che sta alla base dell’utilizzo di questa norma rappresenta comunque un bel macigno sull’economia di queste polizze. Più ampia è la finestra temporale coperta, infatti, maggiore sarà il premio che l’assicuratore pretenderà dall’assicurato.
Per certe specialità di non facile piazzamento, come quelle più esposte alle lunghe e talvolta lunghissime code che caratterizzano molti sinistri da RC Medica, ciò vuol dire doversi sobbarcare di premi assicurativi alquanto cospicui: un ostetrico, ad esempio, può trovarsi di fronte ad un premio che può sfiorare e perfino superare abbondantemente i 20.000 euro.
Alcune compagnie hanno così approfittato del vuoto legislativo causato dalla mancata promulgazione di questo decreto, per offrire polizze con premi fortemente scontati, a fronte dell’accettazione – da parte del professionista – di una retroattività o di una postuma inesistenti o estremamente limitate.
Per quanto l’indicazione dell’articolo 11 della legge Gelli fosse abbastanza chiara, si lamentava l’assenza di una regola precisa circa le condizioni minime applicabili e dunque si offriva una polizza a condizioni limitate, per poter richiedere un premio anch’esso ridotto, rispetto al dovuto.
Il decreto dovrebbe risolvere ora la questione, giacché alla definizione di sinistro e successivamente all’articolo 5 esso prevede chiaramente una validità temporale minima che copre 10 anni di retroattività e altri 10 di postuma/sunset.
Resta tuttavia un problema di fondo che nemmeno la legge Gelli ha potuto o voluto affrontare: per poter lavorare, il professionista deve necessariamente contrarre polizza di assicurazione, mentre la compagnia assicuratrice può sempre rifiutare di coprire il suo rischio.
Di fronte ad un allargamento così netto dell’orizzonte temporale coperto, ormai non più aggirabile da parte delle compagnie di assicurazione, è lecito aspettarsi un incremento dei premi medi che potrebbe risultare assai difficile da sostenere per alcune categorie di professionisti sanitari.
Vedremo quindi come il mercato affronterà questa sfida, anche perché vi sono altre disposizioni del decreto che potrebbero essere foriere di ulteriori irrigidimenti da parte degli assicuratori.
Mi riferisco, ad esempio, al divieto di invocare disdetta per sinistro per gli assicuratori ed alla possibilità di ricorrere al cosiddetto indennizzo diretto, ovvero alla chiamata in causa diretta della compagnia di assicurazione, così come avviene per la responsabilità civile per la circolazione dei veicoli, da parte del danneggiato.
Ma rischiamo di risultare prolissi e dunque chiedo scusa al lettore, ma di questo parleremo in un’altra occasione…